Saturday 16 February 2008

Un moderno Bildungsroman (Cap.IV)


A volte gli veniva in mente lo studente nella scena Studio del Faust I, che aveva preparato per un esame di letteratura tedesca all’università, e il paragone era tanto più calzante quanto gli pareva che le risposte di chi avrebbe dovuto consigliarlo fossero anche troppo simili a quelle di Mefistofele travestito da professore.
Anche lui, infatti, veniva con tanta buona volontà e con la gioventù, ed ora qualcosa di buono gli sarebbe piaciuto impararlo, solo che sembrava che nessuno avesse davvero tempo per lui, proprio quando un buon consiglio sarebbe valso oro per risparmiargli un bel po’ di confusione e metterlo sulla giusta strada.
Col tempo si rafforzò l’impressione iniziale che il motivo per cui docenti e ricercatori sembravano parecchio reticenti a parlare e a condividere quello che sapevano non avesse per nulla a che fare con la mancanza di tempo, ma con la ferma decisione di non dire e non dare strumenti che un altro avrebbe potuto usare, chissà secondo quale perversa logica, contro di loro.
In fondo, tre anni per prepararsi e scrivere la tesi e discuterla erano un tempo molto breve e poco dopo il suo arrivo si rese conto che avrebbe dovuto convivere con il ticchettio del conto alla rovescia, cosa che emotivamente non era preparato a gestire e che lo metteva in agitazione spesso gettandolo in una situazione di vera e propria prostrazione che gli faceva perdere qualsiasi capacità di organizzare razionalmente il suo lavoro di ricerca.
Anche i rapporti con i colleghi erano per lo meno ambigui e spesso compromessi da invidie e gelosie per i più insignificanti motivi. La maggior parte delle volte la causa dei cattivi sentimenti erano le simpatie che i docenti accordavano all’uno o all’altro degli studenti, col risultato di creare diffidenza tra i membri del gruppo di ricerca, apparentemente senza nessun altra motivazione se non il gusto di farlo o l’abitudine, poiché essi stessi ai loro tempi erano stati costretti a sopravvivere allo stesso stato di cose.
E in questa situazione Dan si sentiva come un pesce che, decidendo un giorno di guizzare più in alto del solito, fosse finito fuori dall’acquario o una bottiglia vuota che, chiunque sufficientemente intenzionato a farlo e con una buona mira sarebbe riuscito a buttare giù e a fare a pezzi con una sassata. Questa sua mancanza di fondamento, per così dire, gli si era palesata solo dopo aver lasciato la famiglia e la protezione di quell’ambiente ovattato, che pure con i suoi difetti e limitazioni, non lo aveva mai fatto vacillare ed era stato un punto di riferimento costante.
Da solo e per la prima volta lontano da casa scopriva la sua anima pezzo per pezzo, e, tanto per cominciare, la lunga serie delle sue debolezze, cosa che non gli piaceva affatto.
Innanzitutto era chiaro che non era affatto così determinato come aveva creduto, e tantomeno era sicuro di se stesso.
Si era accorto che aveva disperatamente bisogno dell’approvazione degli altri, soprattutto dei superiori, anche se difficilmente ammetteva esplicitamente questa dolorosa dipendenza.
Non aveva fondamento e per la prima volta lo sperimentava. Non esisteva all’interno della sua psiche quella spina dorsale che è una caratteristica delle persone davvero indipendenti e con una individualità formata. Sì, era giovane, e questo poteva in parte essere contato a sua discolpa, ma gli pareva che il fatto che lo avessero convinto, o si fosse convinto negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di una sua presunta superiorità rispetto agli altri ragazzi, fosse stata una mistificazione ingannatrice e un pericolo da cui nessuno delle persone che predicavano di volergli bene, o che realmente gliene avevano voluto, l’aveva messo in guardia.
Pensava proprio a questo mentre sorseggiando l’ultima goccia di te, decise di versarsene un’altra tazza e poi spense il lumino dello scaldavivande, soffiandoci sopra con delicatezza.
Appoggiandosi allo schienale della sedia, che si piegò assecondando il suo peso, si rilassò e guardò fuori dalla finestra. Il cielo, azzurro e freddo, era limitato a destra dal grigio delle residenze universitarie costruite in edilizia convenzionata ma era attraversato da una luce intensa e il paesaggio, anche se squallido, era rassicurante contemplato dal tepore dell’ufficio.
Pensava che l’inverno sarebbe durato ancora a lungo e il freddo più rigido di dicembre e gennaio era ormai alle porte.
Riprese in mano l’articolo, di cui in più di un’ora e mezza aveva corretto solo tre pagine e, sprofondando nuovamente nel confronto tra la sintassi del cinese e dell’italiano, considerò due diverse ipotesi. La prima era quella che voleva confutare. Ne valutò con accuratezza tutte le conseguenze principali, seguendone con gli occhi le implicazioni finchè, nel suo peregrinaggio mentale, si imbattè in una vistosa incongruenza che gli fece confermare l’inadeguatezza e l’inconsistenza di quel primo approccio.
Poi valutando la seconda ipotesi, quella che aveva sostenuto nell’articolo, ne scandagliò nuovamente gli effetti e i possibili controargomenti e di nuovo gli parve forte e fondata.
Basandosi su quest’ultima, tornò a disegnare mentalmente sulla parete color pesca dell’ufficio l’albero sintattico con la struttura generale della frase in cinese, che accarezzava già da tempo e della cui fondatezza si era convinto, anche se ancora gli mancavano prove incontrovertibili e quindi non aveva osato proporla nell’articolo che avrebbe presentato per non andare incontro ad un rifiuto quasi certo.
Mentre organizzava la sequenza degli elementi funzionali e dei sostantivi prima e poi la struttura del predicato Simon rientrò dal pranzo aprendo la porta e ridendo rumorosamente mentre salutava il collega che l’aveva accompagnato. I classificatori, i nomi, le particelle e i verbi rovinarono puntualmente a terra come fichi maturi.

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