Wednesday 27 February 2008

Un moderno Bildungsroman (Cap.V)



Eppure, anche questo attaccamento, che per la verità era diventato tanto forte via via che i mesi passavano, non era stato all’origine della sua decisione.
Il sentimento all’origine della sua decisione era stato la contemplazione della bellezza. Ogni tanto ritornava con la memoria a quella sera di qualche anno prima quando era stato rapito dalla bellezza del ragionamento e nella confusione della sua giovane mente si era fatta luce e nella lettura avvincente il tempo si era come dilatato, o fermato, non ricordava la sensazione, o non avrebbe saputo descriverla.
Riemergendo dal libro aveva guardato l’orologio ed erano le sei del mattino mentre stava albeggiando.
Si era consumato un innamoramento dei più struggenti, tantopiù che ormai sapeva, come capita a chi subisce un colpo di fulmine che lo studio della sintassi non l’avrebbe più abbandonato e che quella era la sua strada.
Questo motivo edonistico, più forte di quanto egli potesse valutare, lo fece sentire vicino in un modo singolare a Ernst Bloch, prorettore e formalmente Doktorvater del suo lavoro di dissertazione.
‘ Il prof. Bloch pensa che tu sia molto intelligente, Andreas ha sentito che lo diceva a Peter Hase ieri. Parlavano ma la porta del suo ufficio era aperta, così Andreas suo malgrado ha ascoltato la conversazione’
‘Beh, sembrerebbe un complimento, ma non so cosa dovrebbe significare’
‘E’ un complimento. Il prof. Bloch tiene molto a te.’
‘Vorrei parlargli del mio lavoro, ma è molto difficile. Trovo che sia abbastanza sfuggente. Forse è un atteggiamento che hanno tutti i professori’
‘Se è per questo non parla con nessuno dei suoi studenti. Neanche con me, ma a differenza di te io non mi aspetto che lo faccia.’
‘Come dovremmo essere in grado di sviluppare una ricerca sotto la sua supervisione se di fatto non ci viene data nessuna direttiva? Non voglio che mi dica cosa fare, ma mi aspetto una sorta di orientamento da uno nella sua posizione’
‘Beh, pare che tu stia entrando nelle sue grazie, se non lo ottieni tu nessuno ci riuscirà’
Dan rispose con un’espressione ironica intesa a negare quello che Simon aveva appena affermato. Mentre i ragazzi chiaccheravano in questo modo arrivò Jim che subito si rivolse a Dan:

‘Ciao Dan, Ernst fa una riunione nel suo ufficio con le persone che vorrebbe inserire nel progetto per cui farà richiesta di finanziamento l’anno prossimo, mi ha chiesto di chiamarti.’
‘Hai visto? Cosa ti dicevo?’
‘Ma devo venire solo io?’
‘Sì, mi ha detto di chiamare solo te.’

Monday 25 February 2008

Tango y dolor



All'inizio mi avevano detto che il tango era sofferenza, ma non avevo del tutto afferrato l'essenza del concetto. Sì, l'apprendimento nella fase iniziale è molto lento e alle volte abbastanza snervante, ok, ok, ma limitiamo le menate... proprio di sofferenza vera e propria non si può parlare.
Non avevo capito, la questione non era nè filosofica nè di lana caprina. Il concetto in tutta la sua fisicità mi è diventato chiaro quando qualche giorno fa durante una milonga mediamente ritmata una principiante con scarpa assassina mi è piombata a tempo sul collo del piede tatuandoci la punta del suo tacco 8. Nel giro di 1 minuto e mezzo, il tempo che i miei tessuti e le mie difese immunitarie si sono pienamente rese conto di quello che mi era successo, il piede si è gonfiato del doppio assumendo un preoccupante colore paonazzo. Piede sotto l'acqua ghiacciata, ghiaccio a cubetti, fine anticipata della mia lezione, serata in cui avevo deciso di proseguire in milonga, da qualche parte, completamente rovinata. E poi, ovviamente, male al piede. Pensieri di possibili infezioni fulminanti causate dallo schifosissimo tacco.
Ma non è tutto. Nel mio giovane viaggio nell'universo semantico del tango, potrei aver scoperto che, oltre ad essere dolore, il tango forse è anche stronzaggine (si potrà scrivere nel blog? non saprei come altro definire il concetto e credo che quando ve lo spiego sarete d'accordo con me). Infatti sembrerebbe abbastanza normale che, dopo aver causato una devastazione simile sul piede di un'altra persona, che deve andare a medicarsi e non può più proseguire la lezione, ci si vada per lo meno subito a scusare o accertarsi di cosa è successo. La signorina in questione invece gira le spalle e continua la sua lezione di tango sorridendo come se non fosse successo niente. Certo non potrà mica perdere la quota euro del minuto che viene a vedere se per caso non mi ha spaccato il piede. Capisco. Voi direte, ma questo mondo del tango è proprio crudele! Può essere, io continuo a sostenere che c'è dentro tutta una metafora della vita, e della gente che ci puoi trovare. Ad ogni modo, in pieno spirito ecumenico auguro alla signorina che gli eventi rendano anche lei al più presto cosciente dell'essenza del concetto di sofferenza nel tango, magari ad opera di qualche principiante sovrappeso.

Saturday 16 February 2008

Un moderno Bildungsroman (Cap.IV)


A volte gli veniva in mente lo studente nella scena Studio del Faust I, che aveva preparato per un esame di letteratura tedesca all’università, e il paragone era tanto più calzante quanto gli pareva che le risposte di chi avrebbe dovuto consigliarlo fossero anche troppo simili a quelle di Mefistofele travestito da professore.
Anche lui, infatti, veniva con tanta buona volontà e con la gioventù, ed ora qualcosa di buono gli sarebbe piaciuto impararlo, solo che sembrava che nessuno avesse davvero tempo per lui, proprio quando un buon consiglio sarebbe valso oro per risparmiargli un bel po’ di confusione e metterlo sulla giusta strada.
Col tempo si rafforzò l’impressione iniziale che il motivo per cui docenti e ricercatori sembravano parecchio reticenti a parlare e a condividere quello che sapevano non avesse per nulla a che fare con la mancanza di tempo, ma con la ferma decisione di non dire e non dare strumenti che un altro avrebbe potuto usare, chissà secondo quale perversa logica, contro di loro.
In fondo, tre anni per prepararsi e scrivere la tesi e discuterla erano un tempo molto breve e poco dopo il suo arrivo si rese conto che avrebbe dovuto convivere con il ticchettio del conto alla rovescia, cosa che emotivamente non era preparato a gestire e che lo metteva in agitazione spesso gettandolo in una situazione di vera e propria prostrazione che gli faceva perdere qualsiasi capacità di organizzare razionalmente il suo lavoro di ricerca.
Anche i rapporti con i colleghi erano per lo meno ambigui e spesso compromessi da invidie e gelosie per i più insignificanti motivi. La maggior parte delle volte la causa dei cattivi sentimenti erano le simpatie che i docenti accordavano all’uno o all’altro degli studenti, col risultato di creare diffidenza tra i membri del gruppo di ricerca, apparentemente senza nessun altra motivazione se non il gusto di farlo o l’abitudine, poiché essi stessi ai loro tempi erano stati costretti a sopravvivere allo stesso stato di cose.
E in questa situazione Dan si sentiva come un pesce che, decidendo un giorno di guizzare più in alto del solito, fosse finito fuori dall’acquario o una bottiglia vuota che, chiunque sufficientemente intenzionato a farlo e con una buona mira sarebbe riuscito a buttare giù e a fare a pezzi con una sassata. Questa sua mancanza di fondamento, per così dire, gli si era palesata solo dopo aver lasciato la famiglia e la protezione di quell’ambiente ovattato, che pure con i suoi difetti e limitazioni, non lo aveva mai fatto vacillare ed era stato un punto di riferimento costante.
Da solo e per la prima volta lontano da casa scopriva la sua anima pezzo per pezzo, e, tanto per cominciare, la lunga serie delle sue debolezze, cosa che non gli piaceva affatto.
Innanzitutto era chiaro che non era affatto così determinato come aveva creduto, e tantomeno era sicuro di se stesso.
Si era accorto che aveva disperatamente bisogno dell’approvazione degli altri, soprattutto dei superiori, anche se difficilmente ammetteva esplicitamente questa dolorosa dipendenza.
Non aveva fondamento e per la prima volta lo sperimentava. Non esisteva all’interno della sua psiche quella spina dorsale che è una caratteristica delle persone davvero indipendenti e con una individualità formata. Sì, era giovane, e questo poteva in parte essere contato a sua discolpa, ma gli pareva che il fatto che lo avessero convinto, o si fosse convinto negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di una sua presunta superiorità rispetto agli altri ragazzi, fosse stata una mistificazione ingannatrice e un pericolo da cui nessuno delle persone che predicavano di volergli bene, o che realmente gliene avevano voluto, l’aveva messo in guardia.
Pensava proprio a questo mentre sorseggiando l’ultima goccia di te, decise di versarsene un’altra tazza e poi spense il lumino dello scaldavivande, soffiandoci sopra con delicatezza.
Appoggiandosi allo schienale della sedia, che si piegò assecondando il suo peso, si rilassò e guardò fuori dalla finestra. Il cielo, azzurro e freddo, era limitato a destra dal grigio delle residenze universitarie costruite in edilizia convenzionata ma era attraversato da una luce intensa e il paesaggio, anche se squallido, era rassicurante contemplato dal tepore dell’ufficio.
Pensava che l’inverno sarebbe durato ancora a lungo e il freddo più rigido di dicembre e gennaio era ormai alle porte.
Riprese in mano l’articolo, di cui in più di un’ora e mezza aveva corretto solo tre pagine e, sprofondando nuovamente nel confronto tra la sintassi del cinese e dell’italiano, considerò due diverse ipotesi. La prima era quella che voleva confutare. Ne valutò con accuratezza tutte le conseguenze principali, seguendone con gli occhi le implicazioni finchè, nel suo peregrinaggio mentale, si imbattè in una vistosa incongruenza che gli fece confermare l’inadeguatezza e l’inconsistenza di quel primo approccio.
Poi valutando la seconda ipotesi, quella che aveva sostenuto nell’articolo, ne scandagliò nuovamente gli effetti e i possibili controargomenti e di nuovo gli parve forte e fondata.
Basandosi su quest’ultima, tornò a disegnare mentalmente sulla parete color pesca dell’ufficio l’albero sintattico con la struttura generale della frase in cinese, che accarezzava già da tempo e della cui fondatezza si era convinto, anche se ancora gli mancavano prove incontrovertibili e quindi non aveva osato proporla nell’articolo che avrebbe presentato per non andare incontro ad un rifiuto quasi certo.
Mentre organizzava la sequenza degli elementi funzionali e dei sostantivi prima e poi la struttura del predicato Simon rientrò dal pranzo aprendo la porta e ridendo rumorosamente mentre salutava il collega che l’aveva accompagnato. I classificatori, i nomi, le particelle e i verbi rovinarono puntualmente a terra come fichi maturi.

Thursday 14 February 2008

Equilibrismi



Passatemi la semplificazione selvaggia, ma davvero la cultura orientale, intendendo con questo termine soprattutto quella cinese, e la nostra, cosiddetta occidentale, qualche volta sembrano davvero distanti anni luce. Un riscontro diretto si ha considerando il linguaggio. Tanto per iniziare confrontando i due sistemi di scrittura si vede senza particolari analisi che sono molto dissimili (ideo/pittogrammi verso scrittura alfabetica che nel segno ripropone l'informazione fonetica). L'elemento di differenza più forte risiede nel fatto che in cinese il significato della parola, anche se spesso in modo non diretto, è rintracciabile nel significante. Questo vuol dire che le parole scritte non sono degli involucri vuoti a cui sono associati arbitrariamente dei significati, come per esempio nei sistemi alfabetici, ma portano esse stesse, nella loro forma, un significato. In un sistema del genere il risultato è che la scrittura è di fatto imbevuta della cultura del popolo che la utilizza, cosa che mi fa dubitare del fatto che i cinesi aboliranno mai il loro sistema di scrittura, come ogni tanto si sente che dovrebbe succedere prima o poi. Non credo che succederà mai, sarà più probabile che anche l'ultimo contadino delle province più sperdute impari l'inglese prima che i cinesi utilizzino il pinyin (la traslitterazione della pronuncia) al posto del loro sistema di scrittura. Chi vivrà, vedrà. Tornando alla lingua cinese, le parole 'parlate' d'altra parte sono molto promiscue, per così dire. Una stessa sillaba, pronunciata nello stesso modo, talvolta anche con lo stesso tono, può avere significati totalmente differenti, a seconda del contesto in cui viene utilizzata.
Ma le differenze tra la scrittura cinese e quella occidentale non si fermano al tipo di sistema utilizzato, si spingono fino al modo in cui i segni sono tracciati. Come forse molti di voi sanno, in cinese esistono precise regole di precedenza rispetto all'ordine con cui devono essere disegnati i tratti che compongono l'ideogramma. Una delle più importanti tra queste è che i tratti orizzontali (heng) vanno tracciati prima di quelli verticali (shu). E' come se prima vada posta una base che possa garantire una struttura stabile dove costruire gli elementi verticali. La diversità con la modalità di scrittura alfabetica è lampante. I segni del nostro alfabeto seguono tutti una regola di verticalità che è predominante rispetto all'orizzontalità. La maggior parte dei segni dell'alfabeto (i segni del maiuscolo da cui derivano quelli della scrittura corsiva) sono costruiti sulla base di un'asta verticale modificata in modi diversi. La ricerca dell'equilibrio, poi, si estende in cinese fino alla sintassi della frase.
Darò un solo esempio. In cinese, come nella maggior parte delle lingue esistono i verbi intransitivi, verbi che possono o devono comparire senza un complemento oggetto. Uno di questi verbi, in italiano è dormire, per esempio nella frase Al mattino mi piace dormire. Anche in cinese esiste il verbo dormire e si dice shui. Tuttavia quando il verbo shui è proprio alla fine della frase è obbligatorio dire shui jiao (dormire un sonno). E' come se fosse necessario utilizzare anche
jiao per stabilizzare la struttura della frase e completare il predicato rendendolo, per così dire, più pesante. Faccio un paio di esempi con due frasi (per chi è proprio a zero di cinese, al posto degli ideogrammi userò il pinyin, niente panico):

Wo hen xi huan shui jiao
Io molto gradisco dormire un sonno
'mi piace molto dormire'

Zuo tian shang wu wo shui le
Iera mattina io ho dormito

Come vedete, se il verbo è seguito da un elemento che esprime il passato (le), shui si può benissimo usare anche da solo. Una questione di equilibrio e armonia, come si diceva.

Monday 11 February 2008

Zapatos!



L'importanza delle scarpe per ballare il tango è grandissima. Soprattutto per le donne. La scelta delle scarpe non è casuale.
Esistono scarpe da 'lezione', scarpe da tango per le uscite 'regular' e meravigliosi pezzi di arte calzaturiera, che possono rendere la tanghera regina della milonga per una sera (supposto che sappia ballare abbastanza bene).
Come si fa a riconoscerle? Innanzitutto da quanto costano. Le normali scarpe da lezione costano intorno ai 50 eu al paio, quelle medie sugli 85/90 eu, quelle da star, che compiono il miracolo, di più...Inoltre, l'altezza media del tacco cresce proporzionalmente.
Una cosa importante da sapere è che le scarpe da lezione non si portano in milonga, a meno di non voler passare la serata seduta a fare arredamento d'interni. Cosa che, vi assicuro, può essere davvero deprimente. Andare in milonga con le scarpe da lezione infatti può voler dire una cosa sola: principiante assoluta in cerca delle prime esperienze di tango vero fuori dalla lezione settimanale. Nessun ballerino serio la inviterebbe mai (ma ne parlerò in un altro post dove farò un breve sommario delle cose da evitare se si vuole essere inviatate a ballare e delle principali tattiche atte ad indurre l'invito, ma è un capitolo sociologico a parte). Lo stesso dicasi per scarpe normali ma simili a quelle da tango: vengono intercettate immediatamente con i risultati già ricordati.
Per quanto riguarda l'argomento scarpe, bisogna anche sapere che il collant o comunque la calza che vesta il piede è del tutto 'out'. Piede curato, ovviamente, e niente calze, nemmeno a gennaio. Per evitare l'antiestetico biancore avicolo delle gambe che caratterizza la maggior parte delle donne al di sopra del 50° parallelo nella stagione invernale si utilizzano dei particolari fuseaux, da portare con maglie o bluse che terminano un pò sotto il sedere chiuse in vita da una cintura, nella maggior parte dei casi. Ultimamente anche le scarpe da uomo stanno iniziando a vivere un certo rinnovamento: oltre al classico nero ci sono alcuni temerari che azzardano scarpe bicolori (tipo charleston) fino a colori veramente improbabili (ne ho viste anche di viola).
ps. piace la foto che ho scelto per il post? E' di una fotografa cambogiana (certa Molcho) scoperta per caso su Flickr. Bravissima, se avete tempo cliccate sulla foto sopra e siete linkati al suo archivio.

Saturday 9 February 2008

Un moderno Bildungsroman (Cap.III)




L’ambiente dell’insegnamento universitario gli piaceva e vi si trovava a suo agio per la sua vaga somiglianza ad una famiglia allargata. L’appartenenza all’interno di questo gruppo da una parte non era immediata da ottenere, perché richiedeva che alcune qualità fondamentali fossero riconosciute e apprezzate, ma, una volta ottenuto il loro riconoscimento, non si doveva più provare nulla, come per l’appartenenza ad una famiglia vera e propria, dove il corredo genetico della somiglianza fisica e caratteriale e sì condizione stringente, ma anche sufficiente, una volta accertata irrevocabilmente.
Ed era proprio questo il punto, nel suo caso questo meccanismo di riconoscimento e accetazione non aveva funzionato in modo automatico come aveva sperato.
Possedeva le qualità richieste e questo era per lui evidente, almeno per quanto riguardava l’attività di ricercatore nel campo della linguistica generale, e per quanto ne sapeva lui. Ne aveva avuto riscontro anche dai suoi professori e aveva a volte addirittura l’impressione che pensassero che fosse brillante.
Tuttavia, qualcosa era andato storto, o non funzionava come si era aspettato, e alla fine della tesi di laurea superata a pieni voti non arrivò da loro alcuna offerta di iniziare un progetto di ricerca per ottenere il dottorato.
E quindi al desiderio di un riconoscimento delle sue capacità si era unito e andava rafforzandosi una non meno forte determinazione di appartenere ad un gruppo, un insieme di studiosi riconosciuto internazionalmente ma non così numeroso da impedire ai suoi componenti di conoscersi almeno per nome l’un l’altro, proprio come in grande clan della Cina pre-comunista.
Alla maggior parte dei suoi compagni di corso dell’università la linguistica non diceva nulla, quando non ammettevano direttamente di disprezzare quel genere di studi che giudicavano di poca utilità e applicabilità in qualsiasi contesto della vita professionale reale, escluso l’insegnamento. E spesso glielo dicevano apertamente, mentre a lui, da quando aveva iniziato a seguire qualche corso specialistico e ad entrare in confidenza con qualcuno dei docenti, pareva di trovarsi per magia in uno stato di elezione che non avrebbe osato sperare solo pochi mesi prima. Gli sembrava che prima ci fosse stato solo il nulla, il caos della mancanza di direzione e che ora, finalmente, il suo angelo custode si fosse deciso a mostrargli con amorevole decisione l’imbocco della sua strada di entrata nel mondo.
E quindi ora che era riuscito ad assicurarsi una borsa per almeno tre anni poteva dire di essere un ricercatore. All’apparente soluzione di un problema si erano affacciate molte domande di ordine pratico relative alla sua attività. Per esempio, da ricercatore, cosa cercava esattamente? Una versione della teoria? La limatura di una postilla esposta dall’epigono del maestro attualmente in voga? Un umile e poco avvincente sommario di posizioni esposte da altri? La trattazione empirica di un certo argomento facendo attenzione a non creare imbarazzi e a non assumere alcun tipo di posizione? Cercava il grande? Cercava il piccolo?
E poi, avendo anche definito una linea di ricerca, da dove cominciare? Quali discipline erano indispensabili a crearsi un bagaglio critico minimo? Avrebbe dovuto leggere tutto, non sapendo ancora cosa gli sarebbe potuto servire e cosa avrebbe potuto aprirgli uno spiraglio di luce o avrebbe piuttosto fatto meglio a eliminare da principio una parte della letteratura e concentrarsi sul minimo indispensabile iniziando a scrivere da subito? Le domande lo stordivano e gli riempivano i pomeriggi nelle giornate in cui era di cattivo umore e non riuscendo a risolversi ad iniziare a lavorare vagava con sguardo assente nelle pagine del Corriere della Sera online.

Thursday 7 February 2008

E' sempre il momento di farsi una buona tazza di te verde



Una buona tazza di te è una benedizione. Quando si affronta l'argomento te, comunque, ognuno ha le sue fisse e le sue abitudini. Per me i requisiti minimi per ottenere una accettabile tazza di te sono i seguenti:

1. Far scaldare l'acqua nel bollitore;
2. Mettere nella teiera una bustina (una sola!) di te verde. Ultimamente un te verde che mi piace abbastanza è quello della Lipton alla menta (tranciato un pò più grosso, si trova in qualsiasi supermercato). Normalmente nelle istruzioni su come preparare il te c'è scritto di mettere nella teiera una bustina a tazza, e una in più. Per me non va bene, il sapore del te diventa troppo forte e questo, di nuovo, rovina tutto. Credo che questa diceria sia stata diffusa ad arte dai produttori di te che non vedono l'ora di vendertene un'altra scatola;
3. Versare l'acqua con estrema cautela nella teiera, dopo 1 minuto dallo spegnimento del bollitore; versare l'acqua nel momento massimo dell'ebollizione guasta il gusto del te;
4. Lasciare in infusione per 4 minuti;
5. Se si gradisce lo zucchero aggiungere un cucchiaino e mezzo di zucchero raffinato nella teiera dopo aver rimosso (senza dimenticarsi di strizzarla) la bustina (zuccherare il te nella tazza fa risaltare troppo il sapore dello zucchero che copre completamente quello del te); rigirare con un cucchiaino;
6. Versare in tazze non troppo grandi, evitare le mugs da caffè americano (prima che riusciamo a berlo tutto il te si sfredda, e addio...Se le tazze da te sono medio-piccole ci sarà un motivo...
7. Godersi la pausa di ristoro!
ps. non ha direttamente a che fare con il gusto del te, ma l'ortografia con la 'h'(the) proprio non mi piace (perchè la 'h'?).

Quali sono i vostri rituali del te?

Monday 4 February 2008

Un moderno Bildungsroman (Cap.II)



La porta si richiuse. Se n’era andato. Era stato difficile fin dall’inizio avere a che fare con Simon e forse era la persona con cui andava meno d’accordo e con cui alla fine però era stato costretto a dividere l’ufficio data la scarsità di stanze disponibili e l’irrevocabile decisione del prorettore, Ernst Bloch, su cui, almeno per il momento non si poteva discutere. Simon non era particolarmente antipatico e neppure una cattiva persona, Dan lo sapeva. Non conosceva il piacere del silenzio e anzi forse ne aveva orrore. Tuttavia riusciva ad intrattenere conversazioni alla sola condizione che fossero assolutamente superficiali, trattassero di argomenti di amplissima generalità e, soprattutto, non richiedessero una qualsivoglia presa di posizione personale significativa, che richiedesse il ricorso a categorie etiche o convinzioni. Stargli dietro era davvero faticoso, una incombenza lavorativa che non appariva in contratto e perciò doveva sopportare senza retribuzione.

La fiammella sotto la teiera era ancora accesa e decise di versarsi una tazza di te fumante e fragrante nella tazza arancio brillante. Pensò che la tazza gli piaceva, l’aveva comprata a Firenze, insieme alla teiera di metallo e al tè speziato. Era un pezzo di casa da stringere nei giorni come questo, quando il mattino era gelido, non riusciva a venire a capo di niente e avrebbe pagato per un giorno di tregua da Simon.
La ricerca l’aveva spinto qui, ad accettare un posto che in Italia non c’era, o per cui sarebbe stato necessario aspettare pazientemente il proprio turno per anni, senza la sicurezza di una borsa dignitosa. Sì, si può proprio dire che la ricerca l’avesse spinto e l’azione cinetica era stata talmente irresistibile e potente da metterlo sul treno in direzione Schaffhausen, due mesi dopo la discussione della tesi di laurea, con i soldi contati e un’idea vaga che forse poteva farcela davvero a fare quello che gli piaceva nella vita. Ne era convinto, e questo a dispetto dalla mediocrità dell’ambiente dal quale proveniva.
Alla fine aveva realizzato una sorta di piccola conquista prometeica, e, in perfetta aderenza all’ideale eroico a cui gli sembrava adeguato accostarsi, senza preoccuparsi di valutarne tutte le conseguenze.
Anche sulle motivazioni della sua repentina dipartita aleggiava al momento una fitta coltre di nubi che per il momento non gli pareva necessario fugare con una salutare ventata di analisi chiarificatrice.
A chi glielo chiedeva, incuriosito da cosa lo avesse spinto fuori dal suo paese alla ricerca di opportunità che altri coglievano senza allontanarsi troppo dal mondo conosciuto e dalla rassicurante familiarità delle proprie abitudini, faceva credere che si trattasse di un forte desiderio di farsi valere, avere successo e mostrare in un ambiente dove le condizioni lavorative fossero migliori di che pasta era fatto.
Se fosse stato del tutto sincero con se stesso però, avrebbe ammesso che non era stato un generico desiderio di successo a spingerlo. Per lo meno non un desiderio di raggiungere una posizione. Certo, c’era anche quello ma non era certo la molla da cui si era sprigionata la forza del movimento.

Sunday 3 February 2008

Tangometafore



Da qualche mese ho iniziato a ballare tango. Devo dire che la cosa mi piace e mi diverte, ma come in tutto, anche qui ci sono dei livelli da superare, delle piccole fatiche d'Ercole. Innanzi tutto ballare tangoè un impegno a lunga scadenza, sai che prima di essere un pò brava passeranno per lo meno tre anni. Poi, non si tratta di imparare una coreografia, non ci sono sequenze prevedibili, e questo per una ex cultrice dell'aerobica è forse il punto più difficile da accettare. In ultimo, e più importante di tutti, i movimenti della ballerina seguono quelli del ballerino. Per la ballerina non c'è modo di sapere cosa succederà dopo, e più il ballerino è bravo, meno si capisce. E' ovvio che qui si inseriscono delle variabili esistenziali di cui le regole del tango costituiscono un paradigma abbastanza trasparente. Incertezza, lasciarsi andare, far fare agli uomini. Però è divertente far scivolare le responsabilità sul da farsi completamente dall'altra parte. Adesso imparo bene come si fa così vedo se mi riesce di mettere in pratica il concetto anche nella vita reale.

Saturday 2 February 2008

Un moderno Bildungsroman (Cap.I)


Bern
Inserito originariamente da dimitris81
E’ tutto un gomitolo, un magma insensato di idee, pensava, e appena gli sembrava di aver trovato un capo, uno sviluppo e una conclusione, la sua univocità si faceva inconsistente e gli sfuggiva di nuovo sotto la forma di nuove e diversi sviluppi.

Fissava la parete color pesca e con la mente, qualche volta accompagnandosi con il movimento impercettibile dell’indice vi disegnava strutture che assomigliavano alla chioma rovesciata di un grosso albero in inverno. Le parole suddivise per categorie ben classificate, verbi, nomi, aggettivi ed elementi più astratti e identificati solo da regole sintattiche come flessioni o radici verbali si distribuivano sui suoi rami come verdi fichi sugosi, e penzolavano così, all’ingiù, finchè un rumore o un pensiero diverso o uno squillo di telefono o un commento di Simon, con cui condivideva un ufficio troppo piccolo, soffiava come una forte e inaspettata folata di vento, facendoli cadere a terra.

‘Scusa?’
‘Dicevo, Ti va di venire a mangiare alla mensa?’
‘No, preferisco finire qui. Mi mancano ancora poche pagine per finire di ricontrollare l’articolo. Poi pensavo di tornare a casa presto.’
‘Te lo pubblicano allora?’
‘Sembra di sì. Ma non so esattamente quando, comunque esiste un impegno dell’editore e di chi cura il volume, quindi, prima o poi uscirà. Anzi, ti volevo chiedere se prima di mandarlo potessi dargli un’occhiata anche tu, così mi dici cosa ne pensi, che ne dici?
‘D’accordo, volentieri, ma non posso lavorarci prima di domani. Domani pomeriggio va bene?’
‘Certo. Te ne lascio una copia sul tavolo prima di andar via.’
‘Allora ciao noi andiamo a mangiare. Certo che se contini a saltare il pranzo e al posto di un buon piatto sostanzioso di rimpinzi di pane integrale come stai facendo da una settimana ti trasformerai in un grosso gnocco un giorno di questi’
‘No, ti sbagli, ieri ho visto un programma sulla ZDF e pare che l’ultimo grido in America sia la dieta tutto carboidrati.’
‘Davvero? Se l’ha detto la televisione, allora deve essere vero’ concluse Simon con un sorriso ebete.

Das Maerchen umschreiben

Penso di aver già iniziato tempo fa a riscrivere la storia, anche se non ne avevo del tutto coscienza. Riscrivere la storia che era finita male, la fiaba che finisce come tutti sanno che finisce e come viene raccontata di nuovo e ancora in centinaia di migliaia di case a tutti i bambini del mondo. La narrazione si apre ai giorni nostri, a Berna, la verde anche se forse non particolarmente ridente capitale della Confederazione Svizzera. Interno, giorno, Dan Padani sta fissando il muro con aria pensosa.