L’ufficio del prof. Ernst Bloch era all’inizio del corridoio. La porta non era mai chiusa ma rimaneva o del tutto aperta, spalancata, cosa che a detta di Bloch avrebbe dovuto facilitare la comunicazione tra le persone che avevano l'ufficio sul piano, o socchiusa, se stava lavorando, e indicava così la poca opportunità di una eventuale visita e la necessità di prendere un appuntamento per il giorno seguente.
Anche l’uso di attaccare alla porta del suo ufficio avvisi di vario tipo, relativi alle necessità delle attività accademiche ma anche triviali, a volte scherzosi, la maggior parte delle volte incomprensibili era interpretata dai suoi collaboratori come necessità di mantenere viva la comunicazione e lo scambio di informazioni.
Questa ostentata ossessione di Bloch per mantenere tutti i canali comunicativi bene oliati all’interno dell’istituto stonava parecchio con la sua attitudine all’essere di fatto sfuggente e poco disponibile agli scambi interpersonali.
Questo era chiarissimo non solo nella sua riluttanza a guardare negli occhi il suo interlocutore ma anche dal modo in cui, con passo veloce e spedito, scoraggiando chiunque avesse cercato di scambiare qualche parola con lui, si recava nella sala caffè che si trovava dal lato opposto al suo ufficio, alla fine del corridoio.
Ad ogni modo la sua riluttanza alla comunicazione interpersonale non implicava un disinteresse totale di Bloch per il prossimo, al contrario.
Era molto interessato a che niente di quello che gli altri dicevano o facevano gli sfuggisse, in un malcelato tentativo di controllare per quanto possibile tutto quello che accadeva nell’istituto.
Dalla posizione del suo ufficio accanto all’ingresso principale, e considerando la politica dell’apertura della porta, Bloch teneva sott’occhio i movimenti di tutti al dipartimento e nonostante facesse finta di stare sempre con lo sguardo fisso sulla tastiera o sullo schermo del computer, avrebbe potuto ricostruirli tutti meglio di una portinaia esperta.
Bloch era conosciuto nel suo ambiente anche se non era diventato famoso quanto avrebbe desiderato e, secondo un’opinione da lui mai espressa ma che si poteva indovinare nel comportamento altezzoso, quanto avrebbe meritato.
Il suo tavolo, dove si accatastavano pile di fogli, plichi e pubblicazioni era in uno stato di perenne disordine e, fino al giorno in cui non decise di smettere l’abitudine del fumo, ospitava, a lato delle pigne cartacee, un posacenere ricolmo di mozziconi giallastri da cui proveniva un intenso tanfo di nicotina.
Bloch era piuttosto giovane per la posizione che occupava e dava del tu a tutti, colleghi e studenti, richiedendo che anche questi ultimi, indipendentemente dalla differenza di status e di grado, gli si rivolgessero nello stesso modo, cosa che comunque strideva con l’alterigia del suo atteggiamento e il suo comportamento scostante.
Nonostante i denti leggermente ingialliti dal suo vizio, non si poteva dire che l’aspetto di Bloch fosse spiacevole.
Anzi, molte donne sia dentro che fuori dall’istituto lo trovavano piacente, anche se strano. Sì, strano, questo era l’aggettivo.
Era abbastanza slanciato anche se leggermente appesantito dalla mancanza di esercizio fisico e da un regime alimentare disordinato.
Gli occhi verde smeraldo, vagamente felini, quando raramente decidevano di posarsi su quelli di chi gli stava di fronte, avevano una forza magnetica difficile da evadere e nettamente percepibile tanto che a guardarli troppo a lungo si poteva credere di rimanerne ipnotizzati.
Il volto dai tratti regolari, benchè leggermente tesi e nervosi era incorniciato da riccioli biondo scuro, che lo facevano assomigliare ad una sorta di putto adulto, o ad un angelo. L’originalità del personaggio era completata dal suo abbigliamento trasandato e dalla qualità sopranile della sua voce che arrivava a squittire quando si alterava o nella concitazione di un discorso, fino a farsi sibilante nei toni bassi.
Anche l’uso di attaccare alla porta del suo ufficio avvisi di vario tipo, relativi alle necessità delle attività accademiche ma anche triviali, a volte scherzosi, la maggior parte delle volte incomprensibili era interpretata dai suoi collaboratori come necessità di mantenere viva la comunicazione e lo scambio di informazioni.
Questa ostentata ossessione di Bloch per mantenere tutti i canali comunicativi bene oliati all’interno dell’istituto stonava parecchio con la sua attitudine all’essere di fatto sfuggente e poco disponibile agli scambi interpersonali.
Questo era chiarissimo non solo nella sua riluttanza a guardare negli occhi il suo interlocutore ma anche dal modo in cui, con passo veloce e spedito, scoraggiando chiunque avesse cercato di scambiare qualche parola con lui, si recava nella sala caffè che si trovava dal lato opposto al suo ufficio, alla fine del corridoio.
Ad ogni modo la sua riluttanza alla comunicazione interpersonale non implicava un disinteresse totale di Bloch per il prossimo, al contrario.
Era molto interessato a che niente di quello che gli altri dicevano o facevano gli sfuggisse, in un malcelato tentativo di controllare per quanto possibile tutto quello che accadeva nell’istituto.
Dalla posizione del suo ufficio accanto all’ingresso principale, e considerando la politica dell’apertura della porta, Bloch teneva sott’occhio i movimenti di tutti al dipartimento e nonostante facesse finta di stare sempre con lo sguardo fisso sulla tastiera o sullo schermo del computer, avrebbe potuto ricostruirli tutti meglio di una portinaia esperta.
Bloch era conosciuto nel suo ambiente anche se non era diventato famoso quanto avrebbe desiderato e, secondo un’opinione da lui mai espressa ma che si poteva indovinare nel comportamento altezzoso, quanto avrebbe meritato.
Il suo tavolo, dove si accatastavano pile di fogli, plichi e pubblicazioni era in uno stato di perenne disordine e, fino al giorno in cui non decise di smettere l’abitudine del fumo, ospitava, a lato delle pigne cartacee, un posacenere ricolmo di mozziconi giallastri da cui proveniva un intenso tanfo di nicotina.
Bloch era piuttosto giovane per la posizione che occupava e dava del tu a tutti, colleghi e studenti, richiedendo che anche questi ultimi, indipendentemente dalla differenza di status e di grado, gli si rivolgessero nello stesso modo, cosa che comunque strideva con l’alterigia del suo atteggiamento e il suo comportamento scostante.
Nonostante i denti leggermente ingialliti dal suo vizio, non si poteva dire che l’aspetto di Bloch fosse spiacevole.
Anzi, molte donne sia dentro che fuori dall’istituto lo trovavano piacente, anche se strano. Sì, strano, questo era l’aggettivo.
Era abbastanza slanciato anche se leggermente appesantito dalla mancanza di esercizio fisico e da un regime alimentare disordinato.
Gli occhi verde smeraldo, vagamente felini, quando raramente decidevano di posarsi su quelli di chi gli stava di fronte, avevano una forza magnetica difficile da evadere e nettamente percepibile tanto che a guardarli troppo a lungo si poteva credere di rimanerne ipnotizzati.
Il volto dai tratti regolari, benchè leggermente tesi e nervosi era incorniciato da riccioli biondo scuro, che lo facevano assomigliare ad una sorta di putto adulto, o ad un angelo. L’originalità del personaggio era completata dal suo abbigliamento trasandato e dalla qualità sopranile della sua voce che arrivava a squittire quando si alterava o nella concitazione di un discorso, fino a farsi sibilante nei toni bassi.
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